Terranullius - Narrazioni popolari

Gianfranco Calligarich vs. Marco Lupo - Interviste
C’era una storia che mio padre e mia madre evitavano di raccontarmi, quando ero piccolo e soffrivo di crisi asmatiche.

Era la storia di un parente che un giorno si era lanciato dal balcone. Era la storia di un suicidio. Certe storie, pensano i padri e le madri, non vanno raccontate ai figli. Poi sono cresciuto. Ho letto di gente che faceva l’amore. Ho fatto l’amore. Ho letto di gente che viveva di paura. Ho avuto paura. Ho letto scrittori che facevano l’amore con la morte senza avere paura. Ho letto di quelli che venivano dalla provincia e guardavano a bocca spalancata gli orsi ammaestrati. Ho letto scrittori di generazioni perdute e pagine bruciate dalla cera dei cuori deboli. Ho letto Fitzgerald. Ho la retorica impressa sulla lingua ma non riesco a smettere. Quando penso a una letteratura che sceglie di raccontare le sconfitte scendo nella prigione degli occhi lucidi. Così, crescendo, facendo l’amore, avendo paura, ho bevuto Calligarich, e come nelle sbronze giuste ce l'ho ancora nel sangue, come un Lowry che ti affetta la lingua, come forse solo uno che beve può sentire, o forse mi sbaglio.

Prologo

Per chi ha amato l'Odissea e Conrad e Sotto il vulcano e Eliot e quel vecchio Melville letto a voce alta per notti e notti, Gianfranco Calligarich è l’autore che si tiene nascosto, lo scrittore di cui non si parla. Uscito per Garzanti con “L’ultima estate in città” nel 1973, gioiello intravisto appena da qualche critico (Cesare Garboli) e da qualche scrittore (Natalia Ginzburg), inizia a scrivere per il cinema e la televisione (sceneggiati come “Storia di Anna” - 1981, il primo prodotto televisivo italiano che racconta l’eroina). Intanto scrive e dirige per il teatro e nel 1996 vince il premio IDI per la drammaturgia di “Grandi Balene”. Nel 2004 Garzanti pubblica una sua raccolta di racconti, “Posta prioritaria”, e nel 2010 Aragno rispolvera “L’ultima estate in città”. Poi nel 2011 Fazi dà alle stampe “Privati abissi”.
Ora credo che se a Calligarich va bene, se Calligarich non pensa che io sia uno sfinocchiato, vorrei proporgli questo genere di domande. Provo.
 
Intervista a Gianfranco Calligarich
 
La fine. Certi la proclamano all'inizio. L'ultima estate in città, per esempio: «Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine».

Si, lo faccio spesso, è un buon modo, se non ti scopri e dici davvero come andrà a finire, per attaccare il racconto. Metti all'erta, incuriosisci. Mi rompe prenderla alla larga, magari con una descrizione. Le descrizioni o sono stati d'animo o si saltano. L'importante è che la gente ti legga, partecipi a cosa gli stai raccontando e soprattutto che sia curiosa di vedere come va a finire. La suspense è importante. E va applicata anche ai sentimenti facendoli diventare azione. Se tendi bene la corda un fiammifero acceso al momento giusto può essere più sconvolgente di un incendio. E poi devi decidere cosa vuoi, se far piangere o ridere. La regola degli scrittori di feuilleton era "falli piangere, falli ridere, falli aspettare", nel loro caso l'attesa era dovuta alle puntate, ma vale anche per pagina dopo pagina. Se poi riesci a far ridere e piangere nello stesso momento allora sei un genio. Sei Rossini, insomma. Poi per quel che mi riguarda è la famosa e hemingwayana "grazia sotto pressione", vale a dire il fascino che possono esprimere certi personaggi messi alle strette dalla vita e che reagiscono con leggerezza, prendendosi le bastonate e facendo finta di niente. Con ironia e scioltezza. La grazia appunto.

In una tua poesia,"Cristo che secolo vuoto", ci sono il fucile, le verdi colline e le sbronze di Hemingway, ci sono le giacche di Picasso, i fazzoletti e la tromba di Armstrong, la maschera di rughe di Tracy. Dicono la stessa nostalgia che cresce nel precipizio del tuo primo romanzo, una caduta alcolica che tira un calcio in culo alle belle speranze. Leo Gazzarra si suicida. Tu lasci il giornalismo.

Chiamarla poesia è troppo. Però è il discorso sulla grazia che facevo prima. Il precipizio è sempre lì, ci camminiamo sul ciglio. Poi non si tratta di tirare calci in culo alle speranze. Significa non averne e non farne un dramma. Mi è capitato di dire "Dio non esiste, ma dovrebbe. E io cerco di comportarmi come se ci fosse". Lo Sprangato Partner è questo. Era una frase che avevo messo e poi tolto dal libro, troppo seriosa. Ecco la grazia è questo anche.

La tua Roma, città scomparsa, bruciata dai tramonti estivi. Figure di fantasmi di giocatori d'azzardo "orgogliosamente derelitti". Il battito cardiaco che scandisce la narrazione di "Privati abissi" e la faccenda chiamata amore. Scrivi per 35 anni lo stesso libro. Intanto scrivi sceneggiati per la RAI, storie che ritagli dalle vite di un paese che cambia. Racconti dell'eroina, per esempio, per primo lo fai. Scrivi, insomma, per 35 anni lo stesso libro. Intanto non cambiano le storie da raccontare, ma cambiano le scelte e la volontà di raccontarle. Lasci la RAI.

E' semplice, la vita è una sola e bisogna viverla. Scrivere è un buon modo per viverne più di una. Quelle dei tuoi personaggi. Andare a caccia di frontiere e passarle. Ma senza tragedie. Con felicità e fede. Bisogna avere fede in quello che si fa. Come fai ad affrontare un libro se non hai fede? Non solo in te stesso. In tutto, nella vita.

Marco Lupo