La riscoperta de L'ultima estate in città'

Il racconto di cupo disincanto di una giovinezza all'ombra dei palazzi di Roma, firmato nel 1973 da Gianfranco Calligarich
 
Chi vincerà il prossimo Premio Strega? Io assegnerei l’edizione 2010, e quattro o cinque di quelle a venire, a un romanzo riscoperto dall’editore torinese Aragno, e che Garzanti aveva originariamente pubblicato nel 1973.

Si chiama “L’ultima estate in città”, e vinse a suo tempo il premio “L’inedito”, sospinto dai giudizi entusiasti di Natalia Ginzburg e Cesare Garboli. Il suo autore, Gianfranco Calligarich, poi nella vita ha fatto altro, firmando soprattutto sceneggiati Rai, per poi fondare, al Fontanone del Gianicolo, il Teatro XX Secolo.

Mi ci sono avvicinato con la speranza e il timore di trovarvi un racconto e in qualche misura un viatico di vita romana, come mi era capitato a suo tempo con “La giudia”, di Sandro De Feo, ridato alle stampe da Avagliano. E indubbiamente anche “L’ultima estate in città” costituisce un romanzo di formazione. Ma diversi sono gli anni e l’epoca, e il libro alla fine risulta di tutt’altra pasta, non solo più disincantato, ma anche più amaro e disperato, sospeso sul crinale che divide l’onda lunga della “Dolce vita” e la rabbia della seconda parte degli Anni '70.

Calligarich, da apolide qual è, sta in effetti in una "terra di nessuno". Lui che è dell’Asmara, costruisce per il suo personaggio con il nome da film poliziottesco, Leo Gazzarra, un background milanese, in una di quelle famiglie malinconicamente fedeli al proprio "dover essere". Roma, con la sua inesauribile ipotesi di libertà, sembra accoglierlo con la sue estate infinita, i suoi salotti, le sue ragazze, le sue giornate d’oro in cui solo l’idea di dover lavorare fa male. Però Leo non è Marcello, semmai assomiglia al Luciano Bianchi de “La vita agra”, sottilmente anarcoide, destinato a non ritrovarsi in qualsiasi vita. E l’esistenza che conduce a Roma, tra mestieri inappaganti, compagnie alcoliche, disprezzo per la società delle cene in terrazza e l’amore per Arianna, una ragazza fragile, sull’orlo della nevrastenia, lo trascina nell’alcolismo, e all’odio sistematico per l’impossibilità di cambiare le cose.

Grande libro nichilista, che indaga il rapporto tra un individuo e una città, intesa come numero umano infinito e impossibile, luogo di non incontro e di dannata solitudine, l’ “Ultima estate in città” a un certo punto diventa talmente dolente che non sai più se continuare a leggerlo. Sono le pagine della morte di Graziano, un po’ suicidato dalla società e un po’ vittima della banalità della vita, rimasto ore dopo una caduta sul selciato di un cortile di ferragosto, mentre il portiere scambia il suo tonfo con un rumore proveniente dagli appartamenti. Era già così, Leo, quando è partito da Milano, o è stata Roma a costruirgli attorno la sua storia privata di dannazione, che consumerà in fondo a quella spiaggia dove per la prima volta è stato pienamente felice? come se fosse "lo straniero" di Camus che rivolge contro sé stesso il senso dell’indifferenza del mondo, senza trovarvi più nulla di dolce?

Dopo Roma, Leo sembra accorgersi che non esiste più un luogo al mondo dove può ritrovare il "suo" posto: non ha senso tornare al Nord del dover essere, e il Sud dell’essere si disvela in tutta la sua ineluttabilità, come una pistola con un solo colpo. La prosa di Calligarich è definitiva, e sembra "sfornare" a ogni capitolo un epigramma da mandare a memoria:

“Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine”.

Il finale del libro si riannoda all’inizio, come in tutte le narrazioni necessarie, che non potevano andare in altra maniera, che non lasciano scampo, e non ha molta importanza essere ingenui o, al contrario, estremamente intelligenti, accorti: tanto ci si casca lo stesso. Ha il potere di una lunga invettiva rassegnata, che si snoda pagina dopo pagina, anche quando il protagonista dice di non avere recriminazioni e di essersi giocato le sue carte. È una storia che non conosce un attimo di "finzione", di fuga dalla realtà, forse proprio perché parla di un mondo in cui la realtà è stata deprivata di senso, in ragione di un cinismo volatile, che a tratti sembra dar quasi l’ebbrezza, ma che poi ebbrezza imperitura ti chiede per essere "sopportato".